San Giustino De Jacobis
(1800-1860)



di P. Vincenzo Lazzarini, CM

San Giustino De Jacobis nacque il 9 ottobre 1800 a Sanfele (Muro Lucano), un piccolo paese della Basilicata, nell’Italia meridionale, da una famiglia benestante. Settimo di ben quattordici figli, non fu l’unico ad abbracciare la vita religiosa: infatti, due dei suoi fratelli intrapresero la medesima strada, in particolare Vincenzo, che fu frate certosino, e Filippo, prima vincenziano poi padre carac­ciolino. Nonostante le agiate condizioni economiche della famiglia, i De Jacobis, probabilmente in seguito agli scon­volgimenti politici e sociali che in quegli anni coinvolsero e sconvolsero diversi paesi europei, non ultima l’Italia, caddero in difficoltà e furono costretti a trasferirsi a Napoli.

Entrato nella Congregazione della Missione di San Vin­cenzo de’ Paoli il 17 ottobre 1818, quindi a soli diciotto anni appena compiuti, ne assimilò profondamente il cari­sma, e visse in tutte le circostanze della sua vita il suo profondo senso di appartenenza alla comunità. Sei anni dopo, il 12 giugno del 1824, ricevette l’Ordinazione Sacer­dotale a Brindisi.

Analizzando la sua biografia si può senza dubbio ritenere che Giustino abbia ripercorso le orme tracciate dal Santo fondatore della Congregazione, vivendo in prima persona lo spirito che è alla base della fondazione e riproponendo perfettamente, col proprio esempio, le virtù più care a San Vincenzo, ovvero quella della semplicità, intesa essenzialmente come semplicità d’animo, ovvero sincerità e libertà di spirito, nonché il fiducioso ed asso­luto senso di abbandono alla Provvidenza, evidente nelle tante circostanze della sua vita missionaria (cf. Scritti e II: Diario,, pp. 209 e 285 ed Epistolario).

Sono questi i valori che hanno accompagnato il Santo in ogni momento della sua azione missionaria, ispiran­done gesti e pensieri: hanno guidato la mano che scriveva le lettere, hanno confortato le poche soste tra le petrose montagne, hanno accompagnato il piede che segnava di orme le sabbie del deserto, hanno colmato di pensieri di carità ed apostolato le notti trascorse insonni. Una cita­zione da alcune sue righe è, nella sua semplicità e sin­cerità, estremamente rivelatrice: “Nelle magnifiche serate di Settembre e di Ottobre […] quando salgo sulla terrazza, il mio sguardo si va a perdere nel cielo del Nord che in questi tempi si adorna delle più brillanti costellazioni e che domina quel paese ove alla vigilia della mia partenza per la mia nuova patria, chiusi le tombe sulle ceneri funerarie dei miei cari genitori. Il mio cuore, allora, in questa melanconica conside­razione, crede d’ascoltare, da quel punto là, qualche cosa che somiglia ad un grande brusio...” (Epistolario, p. 914).

Ma il suo spirito di semplicità, carità ed abbandono alla Provvidenza si manifesta, oltre che nei momenti meditativi, anche e ancor più nelle azioni missionarie, quando, ad esempio, in soccorso della gente povera, ammalata e in difficoltà chiede l’arrivo tra di loro delle Figlie della Carità, o ancora quando si rivolge ad un confratello amico e protettore della comunità presente in Alessandria di Egitto, parlandogli di un giardino ricco di erbe mediche utili per creare una farmacia, di progetti edili ed agricoli “tracciati con la sua zappa” (Epistolario,

p. 915 ss.).

Fedele alla Regola e alle sue esigenze, vive in maniera matura e cristiana il distacco dalla famiglia: sa, come deve, reggere la lontananza dei parenti ma, nello stesso tempo, non manca di mostrarsi affettivamente e profon­damente interessato a loro, cercando le occasioni per poter riferir loro il proprio amore. In Italia, infatti, pur essendo estremamente impegnato nella predicazione e, quindi, impossibilitato ad aiutare i suoi direttamente, si mostra estremamente grato nei confronti della marchesa Dell’An-toglietta, sua penitente, per tutto l’aiuto disinteressato che presta ad alcuni dei suoi fratelli. Tuttavia non sempre facile risulta per lui la possibilità di partecipare diretta­mente ai dolori e alle gioie della propria famiglia. A tal proposito, durante gli anni 1836-1837 in cui la città di Napoli fu sconvolta da una terribile epidemia di colera, risulta rivelatrice del suo incessante e costante impegno l’impossibilità da parte di Giustino (completamente immerso nell’opera di assistenza e cura che rivolge ai contagiati) di scrivere anche una sola parola a riguardo della morte di suo padre. Non certo una mancanza di interesse o di amore, dato che in seguito, nel suo primo discorso pronunciato agli Abissini in lingua locale, ad appena quattro mesi dal suo arrivo in missione, non mancherà di parlare proprio degli indimenticabili genitori (Diario, p. 79).

In Italia, il suo ministero sacerdotale e missionario si svolse principalmente nel meridione, attraverso la predi­cazione delle missioni popolari, il ministero delle con­fessioni e la direzione spirituale. Ma sentiva di poter portare il proprio aiuto ed il proprio impegno anche altrove, in zone del mondo sfiancate da situazioni sociali e politiche più complesse: fu, infatti, finalmente scelto e inviato per la missione in Abissinia, finalizzata allo scopo di far rinascere il Cattolicesimo tra i cristiani che dopo tanti secoli si trovavano ormai separati, nella Chiesa copta, da Roma. Il 10 marzo 1839 fu così nominato Prefetto Apostolico dell’Abissinia. Si imbarcò a Civitavecchia il 24 maggio del 1839 e ad Adua, dove giunse il 29 ottobre dello stesso anno, pose la sua prima residenza.

Nel gennaio del 1841 gli venne affidata una impor­tante, delicata, e proprio per questo celebre ambasceria in Egitto, presso il Patriarca copto. Giustino accettò l’incarico, con la precisa condizione, però, che la sua missione potesse prolungarsi fino a Gerusalemme e poi a Roma, interessato com’era a far conoscere ai rappresentanti abis­sini la Chiesa di Roma. Il viaggio, così intrapreso, non tardò a produrre i suoi frutti, suscitando conversioni che divennero sempre più frequenti. Profonda e famosa quella del Beato Ghebre Micael, che diventò il discepolo più fedele di Giustino, e morì martire nel 1855.

Sapendo di dover pensare a seminare le speranze per il futuro e di non poter contare sulle proprie sole forze e sugli anni che gli rimanevano da vivere, a Gualà, nel dicembre del 1844, fondò un Seminario per i futuri sacer­doti indigeni e volle chiamarlo “Collegio dell’Immacolata”, intitolandolo così alla sua più grande devozione, ovvero quella della Medaglia Miracolosa, nata dalle apparizioni del 1830, di cui Giustino divenne apostolo e diffusore. Ogni giovedì si recava con i seminaristi in montagna a far provvista di legna da ardere e molti di quei nomi che risuonavano tra le mura del “Collegio” divennero parti­colarmente cari e significativi: Ghebré Micael, divenuto Martire e poi Beatificato; Fares, “il mio piccolo Fares”, come amava definirlo Giustino, ragazzetto in Adua e sempre accanto al Santo: “… sempre con me nei momenti meno fausti...” (Diario, I, pp. 148 e 305), ordinato sacer­dote il 19 agosto 1852; Monsignor Guglielmo Massaja, Apostolo dell’Abissinia, poi Cardinale, che è stato il più eloquente testimone della santità del De Jacobis. Vincendo le enormi resistenze di Giustino, Massaja infatti riuscì a consacrarlo Vescovo la sera dell’8 gennaio 1849 sulle rive del mar Rosso, mentre infuriava la persecuzione contro il nascente cattolicesimo.

Fu proprio una di queste persecuzioni che costrinse San Giustino a doversi allontanare da Gualà verso il mar Rosso. Il Santo ha avuto tristemente modo di contare oltre dodici ondate di persecuzione, di asprezza sempre cre­scente, nell’arco di circa un ventennio. Durante una di queste persecuzioni, nel 1854, anche San Giustino viene catturato ed imprigionato in quel di Gonder, insieme a Ghebré Micael ed altri monaci e laici. Al gruppo si aggiunse anche una donna, Lemlem (Diario, p. 1006), che non fu l’unica a scrivere le cruente, ma significative, pagine della storia del martirio dell’attuale rinascita cat­tolica abissina. Durante la prigionia, Giustino potè contare sulla collaborazione di Monsignor Biancheri, CM, vescovo coadiutore che egli stesso aveva consacrato appena otto mesi prima (ottobre 1853).

Le vicende della vita del De Jacobis, e soprattutto della sua missione in Abissinia, ci sono note grazie al suo diretto racconto pervenutoci attraverso il folto epistolario che comprende numerose relazioni indirizzate al Padre Generale Padre Etienne, e al Cardinale Prefetto di Pro­paganda Fide: Giustino ha qui modo di raccontare gli avvenimenti suoi e dei suoi compagni, dando testimo­nianza di quanto la Provvidenza l’abbia aiutato ricondu­cendolo sulle spiagge del mar Rosso.

Morì nei pressi di Massawa, consumato dalla malaria, dalla febbre e dalle fatiche apostoliche. Il suo Santo corpo fu trasportato sull’altopiano e seppellito a 2.500 m di alti­tudine, nel villaggio di Hebò, un paese molto caro a San Giustino, dato che per più di otto anni aveva operato al

 

fine di dar vita, proprio in quel posto, ad un sodalizio di amicizia spirituale (Diario, p. 931). Proprio in questo caro luogo, quindi, in quella che un tempo era una piccola Chiesa, e che ora proprio grazie alla grandezza della sua anima è divenuto un grande Santuario, la sua salma viene venerata.

La sua grande fama di santità si diffuse presto in Italia come in Abissinia, tanto che la Chiesa Cattolica riconobbe l’esemplarità eroica della vita di San Giustino: a cento anni dalla sua partenza nella missione d’Abissinia Pio XII lo dichiarò Beato il 25 giugno del 1939 e Paolo VI lo canonizzò ascrivendolo nell’albo dei Santi il 26 ottobre dell’Anno Santo 1975.